sabato 28 aprile 2018

Alfie

Morire dormendo

E così si chiude anche questa tristissima vicenda.
Non è la prima e, evidentemente, non sarà l'ultima. Ci dovremo preoccupare quando non se ne parlerà più, quando di "Alfie" ce ne saranno tanti ma sarà ormai considerata la normalità...
Ho seguito la vicenda un po' a distanza, perlopiù in silenzio, ma, a bocce ferme, vorrei dire anch'io qualcosa.
Sulla vicenda in sé è stato detto tanto. Così tanto che forse, nella tempesta mediatica, si è dimenticato anche qual era realmente la posta in gioco. Perché il vero problema - lo ha affermato chiaramente anche il padre - non era salvare Alfie, e nemmeno chiedere un miracolo per la sua guarigione. Se vogliamo chiedere miracoli, il Gaslini qui accanto è pieno di poveri Alfie! Il problema era lasciar morire Alfie e non ucciderlo. E qui la differenza diventa sottile.
Quali poi fossero le prospettive di vita di Alfie, le sue possibilità di recupero... è un mistero. Si resta con l'impressione che la sanità inglese non abbia brillato e con la certezza che mai avrebbe permesso un trasferimento in un ospedale italiano, perché ciò sarebbe stato un'implicita ammissione della superiorità del sistema sanitario della terronissima, disgraziatissima, inferiorissima Italia.
Ma, da quel che ci si capisce, come si sarebbe dovuto intervenire su Alfie? La ventilazione assistita, ad esempio, è considerato un intervento non ordinario, che va valutato, che deve essere proporzionato alle aspettative di recupero o comunque allo sviluppo clinico che ci si attende. E qui si è aperta la voragine: chi valuta? In base a quali principi? La linea che vogliono far passare i britannici è che valutano i sanitari, solo i sanitari, in base a protocolli decisi a monte che si applicano in maniera rigida e che - ad esempio, potenzialmente - portano a considerare come "non degne di essere vissute" le tante esistenze legate ad un supporto respiratorio o, in prospettiva, le tante vite con stato di coscienza ridotto. Per restare in casa nostra: Eluana. Che respirava da sola, ma che era talmente "malpresa" che - poverina! - per il suo bene è stata fatta morire di fame.
E nel caso di Alfie? Era adeguata la ventilazione? Non so. Ma penso che se fossimo stati in Italia avremmo gestito la faccenda in maniera più umana, più terrona ma più umana, concertando e valutando con i genitori gli interventi realmente proporzionati al suo stato di salute e alle sue prospettive di vita. Indubbiamente lo stile britannico è stato molto efficace, funzionale: estrometti i genitori, rapisci un bambino, lo "curi" uccidendolo. Magnifico, non c'è dubbio.Ma la ventilazione non è tutto. Perché a me sembra che il vero problema sia quello della sedazione. Ormai è passata l'idea - per Alfie ma anche e soprattutto per gli adulti - che si debba morire senza soffrire; e siccome l'unico modo sicuro per non far soffrire è quello di anestetizzare, è passata l'idea che si debba morire nel sonno. Del resto è anche un bel luogo comune, chiedetelo a chiunque: "qual è il miglior modo di morire? Nel sonno, senza soffrire e senza accorgersi di nulla". Davvero? Io non vorrei morire così.
Sono fifone, ho paura anche di un mal di denti e non so - non so davvero - che cosa significhi soffrire e quanto un malato possa davvero resistere. Ma se chiedo una grazia, è quella di morire consapevole, preparato, nella preghiera e nell'affetto dei miei cari, chiedo la grazia di morire affidandomi: a subitanea et improvisa morte, libera nos Domine!
E poi qui il confine si sposta facilmente: la morale cristiana insegna che è lecito somministrare antidolorifici anche con il rischio di abbreviare la vita del paziente, ma si sa - ne sono testimone oculare! - che il confine è sottile e che basta andarci con mano un filino più pesante ed ecco che non è più solo un antidolorifico, ma dal sonno si passa alla morte. Ho tanto l'impressione che ormai questa la si voglia passare per "normalità". Inizi a soffrire? Dormi. E dal sonno, alla morte. Che poi ci voglia un giorno o una settimana... dipende da madre natura ma anche e soprattutto dal dosaggio. Questo è il tuo protocollo terapeutico. Via il dolore per il mal di pancia, via il dolore per il mal di piedi, via il dolore per la morte.
E questa è la cosa grave. Questa è la vera tragedia. Che, cioè, ormai si dà per scontato che non si può morire "sapendolo". Non si può soffrire, né poco, né tanto. Qualche anziano lo dice: "non voglio andare in quel reparto, perché lì ti addormentano". Come dire: entri, dormi male? un po' di sedazione, e senza dire ne bì e ne bà vai all'altro mondo senza sapere niente. Senza soffrire. Perlopiù, quando e come vogliono i sanitari.
In Italia questo lo facciamo - eccome se lo facciamo! - ovviamente non tutti e non dovunque. Ma lo facciamo all'italiana, alla chetichella. Si sa, non si sa, va bene a tutti, via così. In Inghilterra sono meticolosi e vogliono farlo con precisione: togliere il respiratore, sedare, sedare anche un po' di più, o un po' troppo, se necessario, è la terapia adeguata. Terapia! Scambiare quello che è un protocollo eutanasico come terapia...
Io penso che questa sia la vera posta in gioco. E siamo solo all'inizio.E non mi preoccupo per Alfie, che è morto con tutti i conforti cristiani e ha iniziato la sua nuova vita in Paradiso, dove non c'è né malattia né morte e dunque non c'è nemmeno - ringraziando il Signore - il sistema sanitario britannico. Mi preoccupo per tutti quelli che verranno dopo, quelli che verranno "curati" a suon di sedativi e gentilmente accompagnati ad una "morte dignitosa". Dignitosa? Sicuramente non cristiana! E nemmeno umana... Mi preoccupo soprattutto per gli anziani, per i disabili, per quelli che realmente non hanno voce e non hanno nemmeno due genitori che gridano al posto loro: quelli che entreranno in ospedale con un malanno e che una sera saranno addormentati - perché mani man stanotte non dormono bene - e solo davanti a San Pietro scopriranno che il loro "protocollo terapeutico" era diventato improvvisamente "sospensione delle cure e sedazione".
Per questo dobbiamo lottare. Tanta preghiera per i genitori di Alfie. E, davvero, nessuna preghiera per Alfie: nella fede sappiamo che non ne ha bisogno, perché i bimbi morti col Battesimo prima dell'uso di ragione e dunque prima della possibilità di peccare, vanno in Paradiso come missili. Ma, soprattutto, pregare e lottare per tutto quello che verrà dopo.
Restando cristiani! Nella polemica talora si è persa un po' la bussola. I toni sono diventati molto aggressivi, ma quello che mi è un po' spiaciuto è che alle volte tutta questa triste vicenda è stata vissuta apparentemente senza speranza, o meglio, senza speranza cristiana. La madre dei sette figli Maccabei, vedendoli morire torturati, uno per uno, non ha mai perso speranza. È stata dura, sferzante, forte... direi: come i genitori di Alfie. Ma non ha mai perso speranza cristiana. E non era la speranza che il figlio a cui avevano tagliato la lingua ricevesse la sua lingua indetro! La fede - la speranza - del cristiano ci insegna che il peggior male non è che ci sia un bambino morto; e nemmeno che ci sia un martire; o dei genitori che perdono un figlio. La vera, imperdonabile catastrofe è che ci siano degli assassini. E magari che questi assassini siano i pioneri di un protocollo "di stato" che genererà una dinastia di assassini inconsapevoli. Ai piedi della Croce, bisogna piangere il buon Gesù e la sua Madre amatissima, ma soprattutto bisogna piangere sui soldati romani, su Pilato, su Caifa che ha vissuto il Sommo Sacerdozio nell'indegnità più assoluta, su Anna, su quei sacerdoti che fino all'ultimo si sono sentiti autorizzati a sputare addosso al Figlio eterno di Dio fatto uomo. Su questo bisogna piangere.
Ma il tutto, nella pace. Perché il giorno che la disperazione avesse il sopravvento, il giorno che perdessimo la pace, il giorno che pensassimo davvero che in questa faccenda Dio ha perso e che la Provvidenza di Dio è stata impotente, allora avrebbe vinto davvero il Nemico.

lunedì 14 dicembre 2015

Le regole del gioco

Sulla nostra allergia alle spiegazioni. In generale

A Bocca di Magra, al bivacco, stavo salendo a fianco del campo da calcio, dove i generosissimi ragazzi del ricreativo stavano - al solito - tribolando per spiegare le regole di un gioco a liceali che le regole proprio non volevano starle a sentire. Storia di sempre. Ma in quel magico momento ho collegato la situazione ad un'altra esperienza che penso noi tutti abbiamo provato: l'incapacità di leggere un libretto di istruzioni da cima a fondo. Qualunque libretto di istruzioni. Per breve che sia: qualunque libretto.
Non ho mai letto (interamente) le istruzioni del forno a microonde, del frigorifero, del computer portatile, del lettore mp3, dei programmi che uso, dell'aspirapolvere... di niente. E ne concludo: perché mai dovrei entusiasmarmi leggendo o ascoltando le regole di un gioco?
Anzi, no: forse le istruzioni dei mobili dell'Ikea le ho guardate, ma soltanto perché ci sono disegni grandi e non c'è scritto niente; e le ho guardate per sopravvivere, dopo qualche tentativo di montaggio "a babbo" miseramente fallito. In proposito, non so se avete notato anche voi che i "libretti"dei nostri aggeggi di casa stanno diventando a dir poco telegrafici; per lo stereo, ad esempio, due disegni con delle indicazioni così elementari che più elementari non si potrebbe: infila il cavo qui, attacca la spina lì, alza il volume, e se vuoi saperne di più - su pulsanti, levette, telecomandi, lucette - avventurati a tuo rischio e pericolo nel ginepraio delle spiegazioni che seguono. Perfino nei videogiochi adesso non bisogna più leggere le regole prima, ma si inizia a giocare subito e le regole vengono introdotte e spiegate in corso d'opera. Un tempo questo era realizzato nei cosiddetti tutorial, ma adesso la fase di apprendimento è inserita nella trama stessa del gioco.
Che cosa ci insegna tutto questo? Anzitutto che i tempi cambiano e che bisogna prenderne atto. Se un tempo c'era allergia per le spiegazioni, adesso c'è il rifiuto totale: seguire una spiegazione è diventata una fatica che ormai pochi - nemmeno io! - riescono a sopportare.
Ne consegue un chiaro messaggio per il gruppo ricreativo: sarebbe favoloso se si riuscisse ad inventare un nuovo modo di giocare dove i giochi sono semplici, e anche quando sono lodevolmente complessi, le regole si imparano giocando; sarebbe strepitoso se si riuscisse ad inventare un nuovo modo di spiegare i giochi... giocando! Vi faccio notare in proposito che alcuni giochi - ad esempio il "kiài" o il violentissimo "telefono" - nascono proprio in questo modo: regole sempre più complesse che vengono introdotte giocando, mentre si gioca e non scodellate tutte all'inizio, prima del gioco. Fatta salva la stima e la gratitudine per il ricreativo e per ciò che fa e cerca di fare sempre meglio, qualunque sia lo stile scelto e i risultati.
Poi ne ricavo la conclusione che è (beatamente!) morto il tempo delle lunghe monizioni liturgiche: la liturgia, come un bel gioco, va vissuta e celebrata, e i fedeli preferiscono "imparare" la liturgia celebrando, senza sorbirsi dei lunghi e noiosi beveroni didascalici mentre pregano o - peggio - prima della celebrazione.
E così in tanti altri campi: nella catechesi, forse anche nella morale. Pensiamo alla scuola, dove dovremmo ridurre i nostri libri a 20 pagine da imparare bene, con tanti begli schemini che diventino realmente "mappe concettuali" di fatto e non soltanto di nome; che diventino cioè patrimonio dell'intelletto dello studente e non semplicemente "schemini" per comporre ordinatamente una dissertazione.
La Chiesa su questo è sempre stata un passo avanti. La mistagogia di cirilliana memoria (San Cirillo di Gerusalemme, morto nel 387) nasceva proprio con questo intento: prima vivi il sacramento, e poi ti spiego che cosa hai vissuto e come devi viverlo. Ma anche i campi nascono così: prima vivi l'amore di Dio e dei fratelli, e solo dopo ti spiego che cosa siano e come puoi viverli sempre meglio e più consapevolmente. Così pure il volontariato, la preghiera, ... Vivere le cose giuste, per imparare con più gusto e più rapidamente.
Istruzioni Ikea, tempi che cambiano, allergia per le spiegazioni... da dove viene tutto questo? Come mai questa repulsione per le regole? Forse è la sete disordinata di una libertà che rifiuta ogni condizionamento?
Penso piuttosto che si tratti di una vendetta dell'intelletto che, saturo di una quantità abnorme di materiale scritto e "frontale", oppresso da una comunicazione esorbitante e unidirezionale che gli viene quotidianamente imposta, quando gode dei suoi spazi di libertà si ribella e rifiuta qualsiasi verbalità.
Saturi di informazioni, di parole... Avete notato quanto velocemente riescano a leggere gli studenti? È un meccanismo di difesa! Siccome devono leggere 50 pagine "per domani", e siccome non possono perdere 6 ore per leggerle attentamente, imparano a leggerle velocemente e superficialmente, per immagazzinare soltanto quelle poche informazioni che gli permetteranno di sopravvivere. Per me - che ho dovuto studiare tanto - questa è diventata una deformazione professionale, al punto che non riesco più a leggere con attenzione, a meditare, a masticare e gustare i testi...
Ma anche per fare il 730 bisogna leggere 50 pagine di istruzioni complicatissime... soltanto per riuscire a mettere 10 numeri nelle caselle giuste che ti decurteranno un paio di mesi di stipendio. Perfino le encicliche non riescono a scendere sotto le 200 pagine! E via dicendo: libri, carte, cartacce, scartoffie. Leggi, leggi ancora, rileggi, distilla, elimina, screma... È il lato oscuro della stampa a buon prezzo.
Ma quando finalmente posso rilassarmi - montando tutto soddisfatto il forno a microonde nuovo di zecca, o giocando con gli amici al bivacco, o godendomi una celebrazione in Chiesa - non ne posso più di istruzioni: lasciatemi libero! E non preoccupatevi di spiegarmi con lunghi discorsi ingessati come potrò essere più libero e spontaneo.

venerdì 20 novembre 2015

La mia casa sarà casa di preghiera

Qualche riflessione sul Vangelo del giorno

In casa mia c'è una cappellina. In casa mia abita il Signore. Casa mia è davvero casa Sua. Ma casa mia - casa Sua - è davvero una casa di preghiera? Una domanda che mi tormenta da quando ho letto il Vangelo di oggi.
La preghiera è come l'incenso: terminata la celebrazione, dissolto il fumo, resta il profumo, un sottile aroma che ci è capitato di percepire entrando in un luogo sacro al termine di una funzione liturgica. Anche la preghiera - la preghiera vera - lascia il suo aroma, un aroma che si avverte in tante comunità, in tante case religiose, in tanti monasteri, dove alle volte sembra che quasi anche i muri, le panche trasudino preghiera.
Si ritorna così domanda iniziale: casa mia, che è anche casa Sua, è davvero una casa di preghiera? Ovvero: entrando a casa mia, si percepisce il profumo, l'aroma della preghiera?
Per giustizia l'orizzonte va ampliato e devo domandarmi se più in generale le parrocchie sono case di preghiera. Non si tratta di mettere fronzoli, orpelli, quadri o fiori, si tratta di respirare profumo di preghiera. Con schiettezza devo rispondere: è difficile. È difficile che una parrocchia sia un luogo dove si respira preghiera. Siamo già fortunati se nelle parrocchie incontriamo uomini di preghiera, e, ringraziando il Signore, i nostri preti tante volte sono davvero uomini di preghiera! ma per respirare aria di preghiera non basta il singolo, non basta il prete, bisogna che tutti gli "inquilini" frequentino la casa di Dio, si soffermino in preghiera, in preghiera autentica, e trattino quella casa con il rispetto dovuto. E questo, oggi, è difficile.
Ma si può andare oltre: la famiglia, che viene spesso definita (con espressione a parer mio impropria) "piccola Chiesa", è davvero una casa di preghiera? Forse si deve essere soddisfatti di vivere in una "casa di carità", lasciando che la famiglia stessa alimenti il suo rapporto con il Signore dal contatto con luoghi e comunità sacre. Ma allora come posso dire che Cristo abita in una famiglia, in casa mia? Perché se in una famiglia cristiana non abita Cristo, qualcosa non funziona. Ma se abita Cristo, allora anche quella casa di Cristo deve diventare casa di preghiera.
Con la distruzione del tempio di Gerusalemme, il Signore ha sancito la conclusione dell'antica economia, in cui Dio andava cercato in un luogo preciso, il tempio davidico; da allora, dall'incarnazione, dalla vita in Cristo in poi, "i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità" (Gv 4,23). Lo adoreranno nell'Eucaristia, ma anche nel loro cuore; lo adoreranno nella liturgia ma anche nell'attività quotidiana, nella famiglia, nel lavoro e nella carità, perché tutto questo può essere vissuto in Cristo. Ma se casa mia non diventa casa di preghiera, allora la presenza del Signore, quella solenne presenza del tempio di Gerusalemme, si è inutilmente frammentata, dissolta in quel grigiore indeterminato di chi pensa di pregare sempre perché in realtà non prega mai.
Pregare. Pregare tanto. Pregare in intima unione con il Signore. Mi sembra che il Vangelo di oggi ci inviti proprio a questo. E che il Signore perdoni le nostre infedeltà, e ci doni di aderire a Lui con rinnovato slancio, perché la mia famiglia, la mia parrocchia, la mia comunità, diventi davvero "casa di preghiera", secondo la volontà di Dio.

lunedì 16 novembre 2015

I miracoli del cardinal Bertone

...e il suo famigerato attico al terzo piano

Non mi è chiaro a chi appartenga l'attico, quello vero, quello all'ultimo piano, per intenderci, ammesso che esista un attico nel palazzo dove risiede il Cardinal Bertone. Il nostro presule, tuttavia, abita al terzo piano, e questo pare un dato certo. Solo un cardinale poteva usare i poteri occulti del Vaticano per trasformare in attico un appartamento che non è all'ultimo piano.
Ma c'è un altro miracolo, ovvero la moltiplicazione degli spazi. I 296 metri quadri di partenza sono diventati presto 500; ieri una mia parrocchiana si è lamentata per i 600 metri quadri, che dopo una mia breve ricerca in internet sono diventati 700. In previsione di facili aumenti futuri, è bene ricordare che mille metri quadri non sono un chilometro quadrato; altrimenti arriveremo alla facile conclusione che il cardinal Bertone alloggia in un attico di cento ettari vicino al Cupolone: un bel titolone per la stampa laica!
"Che sia o non sia un attico, che siano trecento o settecento metri quadri, non fa differenza" mi si dirà. Sarà. Però a me è sempre piaciuto distinguere la calunnia dalla maldicenza. "E le tre suore che sono lì per servirlo! Ma che scusa è? Non vorrai mica difenderlo?" - mi si dirà e mi è stato detto.
Sarà. Ma a me sembra una situazione strana e un po' surreale, ritrovarmi a fare i conti in tasca ai cardinali. Pensare che non ho mai fatto i conti in tasca nemmeno ai veri ricchi, quelli che trovate qui.
Per il buon peso, le Iene sono andate a pizzicare qualche ecclesiastico che abita nel solito appartamento immenso. Ci si può scandalizzare, ci si può indignare. Io ho provato soltanto tanta tenerezza soprattutto per il primo, un uomo anziano che accoglie con entusiasmo indifeso dei giornalisti sconosciuti che vengono per denigrarlo a sua insaputa e gli fa visitare un appartamento nel quale si trova a suo agio come un turista in un museo.
La ricetta proposta nel medesimo servizio da Gianluigi Nuzzi è particolarmente semplice: sfrattare i cardinali, affittare questi super-appartamenti e usare gli introiti per sanare le finanze traballanti della Curia Romana. Salvo poi riservarsi di tuonare contro una Chiesa che si mette a "lucrare" sui suoi beni e senza pensare che quegli appartamenti finirebbero non a persone semplici, ma a qualche milionario fiero del suo nuovo attico in zona San Pietro: Cardinali in una stanzetta, così che il riccone di turno viva nel lusso e venga spremuto dalla Chiesa per guadagnare soldi da dare ai poveri. Sarà pure una ricetta vincente, ma a me sembra una soluzione peggiore del male che si vuole curare.
Che i problemi ci siano, è evidente. Non penso a problemi dei singoli, come quelli tristissimi dell'abate di Montecassino: anche nella Chiesa degli apostoli c'era Giuda che era ladro ed era traditore, e in questi casi serve solo il silenzio e la preghiera. Penso a problemi più strutturali: a beni gestiti in maniera eccessivamente scaltra o liberale; penso ad un tenore di vita che alle volte è davvero poco consono al ruolo o alla situazione, ma soprattutto a quella gestione leggera che fa tanto comodo ad un nugolo di clientes: non ci si dovrebbe dimenticare che il Vaticano è pur sempre a Roma!
Ci sarebbero tante altre cose da dire, per giustizia: abitare in palazzi fastosi sarà pure gratificante, ma la gestione degli immobili antichi è un incubo, e la Chiesa più che eletta sembra quasi condannata a possedere una montagna di beni fatiscenti, come le classiche canoniche nostrane: immense, ma fredde e decrepite.
Si potrebbe discutere, argomentare... Ma forse non ne vale la pena, e comunque non sarei lucido, perché tutti questi discorsi suscitano in me soprattutto rabbia e considerazioni amare.
Chi solleva lo scandalo si veste da paladino della verità, ma è evidente che il suo è soprattutto un intento commerciale o forse anche malizioso: il discredito di pochi diventa sfiducia per l'istituzione nel suo complesso. Forse si sta muovendo qualcosa di più, qualcosa a livello politico: si cerca di guadagnare consenso per giustificare un piccolo o grande incameramento di beni ecclesiastici prossimo venturo, o un taglio sull'otto per mille, o l'ennesima tassa iniqua sui tanti servizi che la Chiesa italiana eroga a vantaggio della collettività e dunque dello Stato stesso.
Chi solleva lo scandalo ha le sue ragioni, magari torbide ma razionali. Ma è triste leggere lo sdegno anche sul volto dei buoni cristiani, che così, inconsapevolmente, entrano in un'ottica denigratoria che non fa bene all'annuncio del Vangelo: presentare la Chiesa come un'associazione a delinquere rende meno efficace la predicazione della Chiesa come comunità di salvezza. Possibile che non ci pensi nessuno? O si pensa che sparlare dei cardinali sia la manovra vincente per riformare la Chiesa e renderla più credibile? La miracolosa efficacia del pettegolezzo!
Allora si ricorre al sotterfugio che ormai va per la maggiore: marcare una linea di separazione netta tra il Papa - che nel sentire di tanti è rimasto l'unico buono e santo nella compagine corrotta della Chiesa - e i cardinali, i vescovi, i preti cattivi, ecc ecc... Chi si salva in questa carneficina sono i "preti di strada", quelli che vivono in uno stato di povertà e hanno fatto dell'assistenza agli ultimi la loro missione: il "don" che sta con i drogati o con le prostitute o che ospita i senzatetto a casa sua.
La conclusione triste è che così si riduce il messaggio di Cristo proiettandolo su un'unico asse, quello socio-economico: il buon Vescovo, il buon prete, il buon cristiano, è l'assistente sociale.
In questo cortocircuito, mi domando dove sia andato a finire il Vangelo, quello vero: l'annuncio della salvezza che nasce dall'adesione nella fede a Cristo crocifisso e risorto.
Forse sarebbe utile ricordarsi che nella Chiesa i primi che hanno rinunciato a tutto, che hanno scelto la povertà radicale, sono scappati nel deserto per cercare Cristo, non per mettere su una qualche ONLUS o per risolvere i problemi sociali della tarda antichità. Sono scappati per cercare Cristo, nel silenzio, nel lavoro e nella preghiera. Ma queste ormai sono cose inutili, che non riempiono la pancia e che dunque non interessano più di tanto. O no?

mercoledì 4 novembre 2015

L’horror cristiano

...e lo strano successo della festa di Halloween

Un tempo la Chiesa era più horror. Anche Dio è stato un po’ horror, ad esempio nel divertentissimo episodio di Saul che va a visitare la pitonessa di Endor (1Sam 28) o nella “danza macabra” degli scheletri in Ezechiele (Ez 37). Almeno in un paio di occasioni gli Apostoli hanno scambiato Gesù per un fantasma (Mc 6,49; Lc 24,37), segno che, anche all’epoca, l’horror era di casa e il Messia stesso ha dovuto operare qualche distinzione.
Se poi andiamo nella gloriosa storia della nostra religione, gli esempi si sprecano: dai cimiteri cappuccini con le ossa (umane!) usate come elementi decorativi, alle magnifiche raffigurazioni del Giudizio Universale di un sapore che si potrebbe definire splatter.
Oggi, nell’epoca dove tutto deve essere misurato, asettico, etereo, queste visioni della morte in technicolor ci disturbano un po’, e qualcuno vorrebbe che rimanessero sepolte in un’epoca barbara che ha ceduto il passo alle idee chiare e distinte dove tutto è cerebrale, dove anche la liturgia tende a diventare un esercizio verboso e intellettuale, con pochi guizzi emotivi e la soppressione di qualsiasi richiamo alla sacralità nei suoi aspetti più appassionanti.
E così, uscito – anzi: cacciato fuori! – dalla porta d’ingresso, l’horror rientra dalla finestra. E se in Chiesa si cerca di evitare qualsiasi riferimento più colorito – fino all'abolizione del Dies Irae che maniman poteva turbare gli animi più delicati – parallelamente nel mondo “laico” si registra un pullulare di film, romanzi, gadget che sempre più frequentemente superano la soglia del cattivo gusto. In questa congerie, anche le brave ragazzine dei gruppi parrocchiali cercano di appagare la loro umanità guardandosi un film “di paura” la sera di Halloween a casa dalle amiche.
E ci sta. E lo capisco. Perché siamo uomini, siamo spiriti incarnati, e abbiamo bisogno di qualcosa che muova i nostri neuroni ma abbiamo anche bisogno di qualcosa che muova le nostre budella. E se questo qualcosa non lo troviamo magnificamente e delicatamente rappresentato in fondo alla navata laterale di una chiesa, andiamo a cercarcelo altrove, in una produzione cinematografica di serie C o in quelle tante espressioni disordinate dove – veramente – può infilarsi lo zampino del Diavolo e soprattutto si trasmette una visione della morte e dell’Aldilà che di cristiano non ha nulla.
Di qui il passo è breve, e inconsapevolmente si inizia ad avere paura della morte e di quello che c’è dopo o dietro di essa, si ritorna a quell'epoca pagana dove l’uomo era in balia di forze occulte e maligne e si dimentica la grande lezione di Gesù Cristo, che ci ha ricordato serenamente che noi valiamo “più di molti passeri”. Il cerchio è chiuso, perché a voler cancellare la morte, anche nei suoi aspetti trucidi, non si trova la serenità, ma si ricade nella paura.
Anche se siamo cristiani, restiamo uomini. Abbiamo bisogno di emozioni forti. Abbiamo bisogno di dire la nostra rabbia (con buona pace di chi ha voluto eliminare le espressioni “deprecatorie” dalla preghiera dei salmi) e non solo il nostro amore. Abbiamo bisogno di guardare la morte e quel che segue non soltanto come una cartolina in bianco e nero, ma con le tinte crude e forti del discorso escatologico o del giudizio del Vangelo di Matteo. E, soprattutto, abbiamo bisogno di vivere tutto questo in Cristo, Egli che solo sa domare e indirizzare le nostre emozioni.
Lasciamo ai buddhisti e ai cavalieri Jedi la soppressione del desiderio e delle emozioni intense. Lasciamoci serenamente ma cristianamente impaurire non solo dalla morte, ma anche e soprattutto dal Giudizio, da quelle “realtà ultime” a tinte forti che il Medioevo non aveva paura di infilare perfino nella navata o nella cripta di una chiesa.

PS. Queste righe le avevo scritte insieme al post precedente, ma non le avevo pubblicate per problemi tecnici. Alla luce dei commenti all'ultimo post, è bene precisare che non voglio proporre un'apologia di Halloween, ma soltanto cercare le ragioni del trionfo di questa iniziativa bislacca e, per le tinte che ha preso, fuorviante. E domandarmi quale sia quel "bene" nascosto - perché anche chi cerca il male sta sempre inseguendo un bene minore - che intravede chi si tuffa nell'horror.
Per conto mio, vorrei ritornare a provare qualche brivido - questo sì - anche in Chiesa. Ma soltanto quei brividi che sono ordinati e misurati dalla croce di Cristo, quel pizzicorino in pancia che ti porta a fuggire il male per aderire con più entusiasmo al bene.
Comunque, se non vi piace Giotto, posso proporvi il logo del giubileo :)


lunedì 2 novembre 2015

Una crociata inutile?

Halloween, il dolcetto scherzetto, i buoni cattolici.

Un tempo c’era il Carnevale. Dicono che fosse occasione di dissipazioni, regolamenti di conti, soddisfazione disordinata di tutti i piaceri. Ma il Carnevale che io ho conosciuto è quello delle bambine vestite da principesse che tirano coriandoli in Corso Italia: nulla di più innocente. Allora è lecita la domanda: quando e perché il Carnevale “grasso” è diventato la festa dei saloni parrocchiali o degli asili tenuti dalle suore?
Il quando non lo so. Ma forse il perché è che, come qualcuno ha detto, oggi è Carnevale tutti i giorni, e per questo non si sente il bisogno di fare Carnevale una volta all'anno. Ma in questa affermazione c’è del vero e c’è del falso. C’è del vero, perché ogni (fine)settimana è un’occasione per tuffarsi nella soddisfazione dei più bassi istinti; ma c’è anche del falso, perché oggi non ci si sente più in dovere di mettersi in maschera per soddisfare i propri istinti, anzi, gli stessi organismi educativi de facto (film, telefilm, canzoni, finanche la Walt Disney) presentano queste dissipazioni come uno standard di vita auspicabile dalla prima adolescenza.
Con questo sfondo in mente, ho assistito negli ultimi anni all’arrivo dagli USA di Halloween e contestualmente all'arrivo – direi dagli ambienti protestanti più duri e dallo stimabile cattolicesimo d'Oltrelalpe – della crociata contro Halloween. Premetto che non so. Non so rendermi conto se e dove la festa si possa trasformare in una sentina di immoralità, di invocazione di ambigui poteri occulti o in espresso satanismo, e i moniti di p. Amorth che di Diavolo se ne intende parecchio, mi inquietano.
E tuttavia, l’Halloween che conosco io è la festa delle ragazzine in maschera, una sorta di Carnevale a tema fuori stagione e nulla di più. Divertirsi in semplicità. E ogni anno rimango sempre più imbarazzato di fronte alle demonizzazioni e agli anatemi contro una festa che – lo confesso – mi sta pure simpatica, e ai goffi tentativi di sostituirla con iniziative iper-catto che i giovani etichettano al volo, e forse non a torto, come “sfigate” in partenza.
Stando a Wikipedia – mi si perdoni la pigrizia di non cercare altre fonti – le origini precristiane di questa festa sono solo ipotizzate… e nella mia testa da teologo smaliziato, questo suona come un tentativo goffo di satanizzare ciò che satanico non è. Si scopre così che il nome è cristiano – vigilia di (tutti i) santi – che è cristiana l’usanza delle zucche (ricordo delle anime del purgatorio) cristiana l’usanza di mendicare porta a porta il giorno dei Santi. E la domanda sorge spontanea: ma non è che stiamo combattendo la crociata sbagliata? Ma non è che anziché demonizzare dovremmo riscattare l'usanza cristianissima di scherzare sui fantasmi e sugli spiritelli?
Forse la vera crociata sarebbe quella di far capire che in tutto questo il Diavolo non c’entra, e che Satana è bene lasciarlo stare in ogni stagione dell’anno, non solo ad Halloween; e che Dio ha potere unico su tutto, tanto che posso vestirmi da fantasma, da zombie o da scheletro serenamente, perché si tratta di personaggi di fantasia, così come posso vestirmi da Arlecchino o da Pulcinella.
E poi... bisognerebbe ricordarsi più spesso che un buon esercito non può allargare troppo il fronte, pena indebolire le forze. Alimentiamo già le sacrosante crociate contro l’aborto, il divorzio, l’eutanasia, il gender. Sarebbe bello se ne inventassimo anche qualcuna “a favore di” e non soltanto “contro”, ad esempio la crociata per le vocazioni, per il giusto salario, per un’economia sostenibile (così divento politicamente corretto), per la preghiera dei laici. Ma… Halloween? Era proprio necessario?
Diceva un giornalista che in Italia se qualcosa è divertente, è proibito. È proibito sedersi sui gradini, camminare sui prati, giocare a palla al mare… A fare la crociata contro Halloween rischiamo soltanto di perdere presa sui giovani, che già vedono la Chiesa come una roba da gente vecchia che ha paura di divertirsi, un’istituzione molto italiana dove tutto quello che è divertente è proibito. E rischiamo di mettere sullo stesso piano le tante crociate, quelle sacrosante e quelle inutili, per cui il “ribelle” oggi si veste da zombie, domani abortisce, dopodomani divorzia…’tanto si sa che la Chiesa è contro tutto questo, ma io sono laico e faccio quello che mi pare.
Ma sono solo mie idee e non vorrei pestare i piedi a nessuno...

mercoledì 28 ottobre 2015



Gesù e i peccatori

Sempre su quell'intervento di Enzo Bianchi che si scandalizzava con chi rimaneva scandalizzato della misericordia di papa Francesco.


Nell'ultimo (e anche primo) mio intervento (Giustizia o misericordia?) ho osservato che oggi l'indulgenza c'è per quei peccatori che in realtà non riteniamo peccatori. Adesso vorrei presentare l'altra faccia della medaglia, ovvero il giudizio duro e definitivo verso quelli che veramente riteniamo peccatori, perché pare che in questo secondo caso la misericordia vada lasciata a casa, con buona pace di tutti e in pieno spirito di giustizia, anzi, pardon, volevo dire: di legalità.
Siamo infatti assuefatti ad un'epoca mediatica che manifesta uno stucchevole buonismo per tante situazioni delicate ma con la stessa nonchalance ci sbatte in faccia quotidianamente i nuovi "mostri", gli intoccabili, i veri peccatori. Sono i mafiosi, i pedofili, gli scafisti. Ma anche agli evasori fiscali, i razzisti e - perché no? - gli omofobi e magari anche chi non paga il canone della RAI. E chissà quanti altri.
Domandiamoci allora che cosa si penserebbe oggi se Gesù si sporcasse le mani con questa gentaglia; che cosa penserebbero di lui e benpensanti, ma anche che cosa penserebbero di lui i cristiani "doc", quelli che "se anche tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai". Qui la misericordia dove andrebbe a finire?
E che cosa penseremmo di un Papa che "mostra aperture" nei confronti del clan dei casalesi, o che manifesta amicizia con qualche politico corrotto? Che cosa penseremmo se il vescovo radunasse tutti i pedofili della Diocesi e mangiasse a tavola con loro?
E già. Noi, piccoli benpensanti, ci scandalizzeremmo.
Ma dobbiamo anche riconoscere che il torto non starebbe tutto dalla nostra parte e che un po' di ragione ce l'avremmo anche noi, perché il confine tra misericordia e connivenza non è così marcato, tra il chinarsi con affetto e senza giudizio sul peccatore e l'approvare il suo comportamento peccaminoso; in due parole: tra l'amare il peccatore e amare il suo peccato.
Gesù Cristo questi problemi non li aveva. Santo, giusto, luce che splende nelle tenebre. Ogni volta che aveva a che fare con i peccatori, a tutti (tranne che ai benpensanti) era evidente da che parte stesse la luce e quanto questa luce illuminasse il peccato. Gesù non aveva problemi a farsi lavare i piedi dalle lacrime di una peccatrice, a farseli asciugare dai suoi capelli, a farsi ungere il capo da una donna (probabilmente) di facili costumi.
Ma io, io povero prete, questi problemi li ho. E riconosco con umiltà che la mia presenza in certi ambienti o in certi contesti può significare non una mano tesa e misericordiosa, ma il bollino ecclesiastico su ciò che non va approvato.
Ricordate la questione tra San (!) Giovanni Paolo II e Pinochet? Quella stretta di mano così criticata? Se anche fosse stata voluta - perché pare che si trattasse di un ignobile trabocchetto - non era forse quella la misericordia del buon pastore che si piegava su una dittatura di destra? E come mai quegli stessi che plaudono oggi alle aperture di papa Francesco si erano scandalizzati di fronte alle aperture di papa Giovanni Paolo?
Pare così che ci sia una misericordia di serie A, quella verso i finti peccatori emarginati, e una misericordia di serie B, quella verso i peccatori, i peccatori quelli veri.
Forse dovremmo piantarla con questa ipocrisia, con questo atteggiamento pio e misericordioso verso certuni che diventa un accanimento feroce e vendicativo verso certi altri. E smetterla di etichettare ogni nostra tolleranza con il bollino della misericordia. Ha ragione Enzo Bianchi: la misericordia, quella vera, scandalizza. E siccome al Sinodo, in fondo, non si è scandalizzato proprio nessuno, forse non stiamo parlando di misericordia ma di qualcos'altro.
Siamo tutti peccatori, questo è fuori discussione, e ci consola richiamare il Vangelo di Marco che ci ricorda come Gesù non sia venuto a "chiamare i giusti ma i peccatori". Forse bisognerebbe ricordarsi anche la versione lucana, che aggiunge la non irrilevante precisazione: "perché si convertano". Senza distinguere tra cammelli e moscerini.